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Una bomba sui cittadini della rete di Alessandro Gilioli Il patto tra Facebook e il Viminale è un attentato ai diritti dei cittadini digitali. E la prova che gli utenti non possono essere spettatori passivi in un rapporto diretto tra le corporation di Internet e i governi locali (28 ottobre 2010) Nel nostro Paese abbiamo assistito negli ultimi anni a un'escalation di norme e di proposte di legge per rendere l'accesso a Internet sempre più difficile, controllato, burocratizzato. Proprio in questi giorni, ad esempio, l'Agcom sta valutando come rendere operativa l'odiosa normativa sui video on line scritta da Paolo Romani, con probabile pesante tassazione per chiunque abbia un sito su cui voglia caricare del materiale che «faccia concorrenza alla tv». Contemporaneamente sui giornali della destra si è scatenata la consueta 'caccia all'internauta' che avviene dopo ogni gesto di violenza politica, in questo caso l'aggressione romana a Daniele Capezzone: nel dicembre scorso era stato il gesto di Massimo Tartaglia a Milano a far delirare i vari Schifani e Carlucci in proposito, ottenendo l'effetto immediato di far prorogare per un altro anno le norme medievali e tutte italiane sul Wi-Fi (a proposito: l'altro giorno Maroni ha promesso di "superare" il decreto Pisanu, e tuttavia il rischio è che si vada verso la sostituzione dell'identificazione cartacea con quella via sms, insomma anni luce lontani dalla navigazione libera). Ma quello che denuncia Giorgio Florian nel suo articolo è molto più grave, forse il più pesante attentato mai realizzato in Italia contro i diritti dei "netizen", i cittadini della Rete. Il patto con cui la Polizia Postale italiana si è fatta concedere da Facebook il diritto di entrare arbitrariamente nei profili degli oltre 15 milioni italiani iscritti a Facebook, senza un mandato della magistratura e senza avvertire l'internauta che si sta spiando in casa sua, è di fatto un controllo digitale di tipo cinese che viola i più elementari diritti dei cittadini che dialogano utilizzando il social network: insomma, stiamo parlando di una vera e propria perquisizione, espletata con la violenza digitale del più forte. Aspettiamo quindi urgenti chiarimenti dalla Polizia Postale e dal ministero degli Interni, da cui dipende. E non basta certamente una smentita rituale, perché le notizie pubblicate nell'articolo di Florian provengono da fonti certe e affidabili. Da un punto di vista politico, inoltre, la cosa è davvero grottesca: mentre la maggioranza di governo si impegna da mesi per rendere più difficili le intercettazioni telefoniche richieste dai magistrati, contemporaneamente il ministero degli Interni si arroga il diritto di intercettare i nostri contenuti e i nostri dialoghi su Facebook senza alcun mandato della magistratura. Viene il sospetto che questa differenza di trattamento sia dovuta al fatto che i politici, i potenti e i mafiosi non comunicano tra loro sui social network, e quindi il loro diritto alla privacy venga considerato molto più intoccabile rispetto a quello dei normali cittadini che invece abitano la Rete. Allo stesso modo, aspettiamo chiarimenti urgenti sul secondo socio del 'patto cinese' firmato a Palo Alto: Facebook, che da un po' di tempo ha aperto uffici in Italia con tanto di responsabili e dirigenti. Per prima cosa, Facebook ha l'obbligo di rendere pubblico l'accordo firmato con il nostro Ministero degli Interni, perché riguarda tutti noi, cittadini italiani e al contempo cittadini di Facebook. A cui quindi i vertici del social network devono non solo immediate scuse, ma garanzie precise che questo patto diventi al più presto carta straccia e che i diritti degli utenti vengano concretamente ripristinati e garantiti. Il social network fondato da Zuckerberg, si sa, è uno straordinario strumento di socializzazione, di promozione di cause sociali e potenzialmente di crescita e confronto di tutta una società. Ma si va manifestando ultimamente anche come una dittatura in cui le pagine e i gruppi vengono bannati in modo in modo arbitrario e insindacabile: e adesso come un informatore di polizia di cui non ci si può più in alcun modo fidare. Più in generale, quanto accaduto dimostra che i mondi virtuali di cui oggi siamo cittadini (inclusi YouTube, Google, Second Life etc) devono iniziare a rispondere in modo trasparente ai loro utenti. E gli accordi privati con i governi sono esattamente all'opposto di questa trasparenza. |
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Facebook, sbarco in Borsa a maggio. Presentati i documenti, ipo da 5 mld L'initial public offering maggiore della storia delle società web. L'azienda di Zuckerberg valutata fra i 75 e i 100 miliardi 02 febbraio, 00:08 Facebook, sbarco in Borsa a maggio. Presentati i documenti, ipo da 5 mld NEW YORK - Facebook presenta alla Sec i documenti per sbarcare in Borsa. L'obiettivo e' quotarsi, sotto il simbolo 'fb', in maggio. Facebook punta a raccogliere 5 miliardi di dollari, una cifra che potrebbe facilmente salire e raggiungere i 10 miliardi di dollari, per una valutazione della societa' di 75-100 miliardi di dollari. L'initial public offering (ipo) del sito di social network potrebbe essere la maggiore della storia fra le societa' web. La documentazione presentata alla Sec offre per la prima volta una fotografia dei conti di Facebook. Nel 2011 il sito di social network ha realizzato 3,71 miliardi di dollari di ricavi contro gli 1,97 miliardi di dollari dell'anno precedente. L'utile netto e' ammontato a 668 milioni di dollari, il 79,5% in piu' rispetto al 2010. Nella lettera ai potenziali azionisti, il co-fondatore e amministratore delegato di Facebook, Mark Zuckerberg afferma: ''Non produciamo servizi per fare soldi; facciamo soldi per realizzare servizi migliori. In questi tempi ritengo che sempre piu' persone vogliano usare i servizi di societa' che credono in qualcosa che va al di la' del semplice massimizzare i profitti''. Zuckerberg ha il 28,4% di Facebook e nel 2011 ha ricevuto un compenso complessivo di 1,5 milioni di dollari. L'ipo aumentera' la ricchezza di Zuckerberg che, a soli 27 anni, e' secondo Forbes uno dei paperoni d'America: la quotazione potrebbe portargli nel portafoglio 28 milioni di dollari. I dati mostrano che la crescita di Facebook e' piu' lenta di quella delle altre societa' internet che si sono quotate di recente. I ricavi di Groupon sono aumentati del 695% nei nove mesi che si sono chiusi a settembre 2011. Quelli di Zynga sono saliti del 106% nello stesso periodo. Ma al di la' di una crescita lenta, Facebook - a differenza delle altre societa' internet che si sono quotate negli ultimi mesi - e' redditizia, con i giochi online che insieme alla pubblicita' sono il motore dei ricavi: nel 2010 i ricavi dalla pubblicita' rappresentavano il 95% dei ricavi totali di Facebook. Nel 2011 la quota e' scesa all'85%. Facebook conta su 845 milioni di utenti. A curare il collocamento di Facebook e' Morgan Stanley, che ricoprira' il ruolo principale. A collaborare all'operazione saranno anche Barclays Capital, Goldman Sachs, Bank of America Merrill Lynch e JPMorgan. |
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Facebook ha manipolato le nostre emozioni? di Katy Waldman – Slate @xwaldie Il flusso di notizie di 700mila utenti è stato modificato e reso più "positivo" o "negativo" per un esperimento scientifico (che ha sollevato qualche dubbio etico) 29 giugno 201488 Facebook sta sperimentando cose su di noi. Un nuovo studio della Proceedings of the Natural Academy of Sciences (PNAS), una rivista scientifica americana, ha rivelato che Facebook ha intenzionalmente manipolato il flusso di notizie di quasi 700mila utenti per studiarne “il contagio emotivo attraverso i social network”. I ricercatori, che fanno parte rispettivamente di Facebook, della Cornell University e della University of California-San Francisco, hanno compiuto dei test per capire se riducendo il numero di aggiornamenti “positivi” nel flusso le persone che li avessero visti avrebbero ridotto la loro produzione di contenuti positivi. Stessa cosa per quelli negativi: è possibile che nascondendo post che contengono parole tristi o arrabbiate si spingano gli utenti a scrivere aggiornamenti meno pessimisti? Per ottenere questo risultato gli studiosi hanno modificato l’algoritmo con il quale Facebook seleziona i post in modo che i post con parole positive o negative venissero identificati e classificiati. Ad alcune persone erano forniti aggiornamenti dal neutrale al positivo, mentre ad altre dal neutrale al negativo. Quindi, i successivi post di queste persone venivano studiati per valutarne il significato comportamentale. Il risultato dell’esperimento? È un “sì” alla domanda di poco sopra: i social network hanno la capacità di diffondere sentimenti negativi e positivi. Un altro risultato: Facebook ha intenzionalmente reso tristi migliaia e migliaia di persone. La metodologia di Facebook solleva diverse questioni di natura etica. Il gruppo di ricercatori potrebbe aver agito al di là degli standard della ricerca, oltrepassando dei limiti stabiliti dalla legge federale e dai trattati sui diritti umani. James Grimmelmann, un professore di diritto della tecnologia alla University of Maryland, ha detto che «se esponi la gente a una cosa che modifica il loro status psicologico, stai facendo della sperimentazione: è il genere di cose che richiede un consenso informato». Ah, il consenso informato. Ecco l’unica menzione del “consenso informato” presente nello studio: la ricerca «ha agito nei limiti stabiliti dalla Facebook Data Use Policy, alla quale tutti gli utenti si dichiarano d’accordo prima che venga loro creato un account in Facebook, costituendo di fatto un consenso informato per questa ricerca». Non è affatto ciò che la maggior parte dei sociologi definirebbe “consenso informato”. Questa è la sezione in questione della Facebook Data Use Policy: «Ad esempio, oltre ad aiutare le persone a vedere e a trovare le cose che fai e condividi, potremmo usare le informazioni che riceviamo su di te per le operazioni interne, fra cui la risoluzione dei problemi, l’analisi dei dati, i test, la ricerca e il miglioramento del servizio». Quindi, esiste una vaga menzione di possibili “ricerche” nel breve elenco di cose a cui uno dà il proprio consenso quando si iscrive a Facebook. Come l’esperto di bioetica Arhtur Caplan mi ha detto, comunque, vale la pena chiedersi se questo cavillo da avvocati sia davvero sufficiente per avvisare la gente che «i loro account di Facebook posso essere utilizzati da ogni sociologo sul pianeta». Ogni ricerca scientifica che riceve del denaro federale deve seguire la “Norma comune sui soggetti umani”, che definisce il consenso informato una cosa che comprende, fra le altre, «una descrizione di rischio prevedibile o di disagi per il soggetto». Come osserva Grimmelmann, nulla nel documento di Facebook lascia pensare che l’azienda si riservi la possibilità di intristirti togliendo tutto ciò che è positivo e allegro dal tuo flusso di notizie. La manipolazione dei sentimenti è una cosa seria, e i vincoli per approvare una sperimentazione di questo tipo sono piuttosto esigenti. (la psicologa di Princeton Susan K. Fiske, che ha curato la storia per PNAS, ha detto all’Atlantic che l’esperimento è stato approvato dalle commissioni di controllo degli istituti dei ricercatori coinvolti. Ma anche lei ha ammesso di avere qualche scrupolo sulla ricerca). Facebook, probabilmente, non ha ricevuto nessun fondo federale per questa ricerca, che quindi può non ricadere sotto la “Norma comune”. Lasciando perdere il fatto che seguire queste norme è una pratica comune anche per istituti di ricerca privati come Gallup e il Pew, la domanda allora diventa: la Cornell o la University of California-San Francisco hanno finanziato questi studi? In quanto istituzioni pubbliche, entrambe devono sottostare alla legge. Se non l’hanno finanziata ma i loro ricercatori vi hanno partecipato lo stesso, non è chiaro a quali standard debba sottostare la ricerca, dice Caplan. (Ho contattato anche gli autori dello studio, le loro università e Facebook: aggiornerò questo pezzo il prima possibile). Anche se la ricerca in questione fosse legale, sembra non adeguarsi agli standard richiesti a chi spera di pubblicare su PNAS. Uno dei requisiti per farlo, si legge sul loro sito, è che «gli autori debbano includere nella sezione riservata ai metodi utilizzati una breve dichiarazione in cui indicano “l’istituzione e/o il comitato di controllo che ha approvato l’esperimento” (la ricerca in questione non la contiene). Un altro requisito indica che “tutti gli esperimenti devo essere stati condotti secondo i principi espressi dalla Dichiarazione di Helsinki“. Questa stessa impone che i soggetti umani “siano adeguatamente informati di fini, metodi, fonti di finanziamento e possibili conflitti di interesse e affiliazioni istituzionali del ricercatore, nonché dei benefici e dei rischi potenziali che ogni studio può comportare e dei disagi implicati”. Nel corso della ricerca, sembra che il social network ci abbia reso più felici o più tristi di quanto saremmo altrimenti stati. Ora, ci ha resi tutti più inclini a non dargli fiducia. ©Slate ___ Aggiornamento: In seguito alle contestazioni causate dalla diffusione della notizia dell’esperimento sociale condotto su Facebook, uno degli autori dello studio – Adam D. I. Kramer – ha esposto proprio attraverso il suo account Facebook alcune informazioni aggiuntive riguardo lo studio, tentando di ridimensionare le preoccupazioni di una parte della comunità. “Il motivo per cui abbiamo fatto questa ricerca”, ha scritto Kramer, “è perché ci interessa l’impatto emotivo di Facebook” e perché “eravamo preoccupati che l’esposizione alla negatività degli amici potesse indurre le persone a non visitare Facebook”. Kramer ha anche riconosciuto che le motivazioni della ricerca non erano chiaramente esposte nello studio, e ha comunque specificato che l’esperimento ha riguardato soltanto una piccola percentuale dei contenuti del newsfeed di poche persone, per poco tempo: lo 0,04% degli utenti, per una settimana, nel 2012. Nessun aggiornamento degli amici è stato tecnicamente “nascosto”: continuava a essere visibile sul loro diario, e poteva in ogni caso comparire nel caso in cui l’utente avesse ricaricato il newsfeed. |
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Facebook nella bufera, ha manipolato le nostre emozioni Carola Parisi on30 giugno 2014 Non è la prima volta che Facebook, il più grande social network mondiale, finisce nell’occhio del ciclone. Stavolta, infatti, il network di Zuckerberg ha rivelato, recentemente, di aver effettuato delle ricerche sugli utenti senza che loro potessero saperlo. Ovvero, il filtraggio e la censura di determinati post rispetto ad altri, ha permesso di controllare le emozioni del “popolo di Facebook”. Si sono concentrati sul flusso di scambi di messaggi di 700mila persone, usate come cavie del tutto inconsapevoli. Obiettivo della ricerca, condotta per una settimana nel 2012, era verificare quanto il tono dei messaggi potesse influenzare il comportamento virtuale degli iscritti al social network. Facebook ha, quindi, alterato l’algoritmo usato per postare messaggi agli utenti finali. Ed il gioco, anzi la ricerca, è fatta. Lo studio, condotto da ricercatori del social network, insieme a scienziati della Cornell University e della University of California di San Francisco, è apparso sull’edizione del 17 giugno della rivista Proceedings of the National Academy of Sciences. L’esperimento ha avuto lo scopo di verificare se il numero di termini positivi o negativi nei messaggi riusciva ad influenzare in un senso od in un altro gli aggiornamenti dello status di chi li riceveva. Al termine della settimana in cui l’esperimento è stato realizzato, la maggior parte degli utenti che era stata sottoposta a commenti più costruttivi ne aveva scritti, prevedibilmente, a loro volta; mentre i contenuti negativi ne hanno ispirati altri. Il fenomeno ha mostrato le dinamiche di rapido contagio dell’umore sui social network. E malgrado rientri tra le possibilità di Facebook effettuare delle data analysis simili, è giusto farlo? Ingannare migliaia di persone, inconsapevoli, manipolando le loro emozioni? C’è già, infatti, chi oltreoceano si pone parecchie domande sull’eticità dell’esperimento, che, sicuramente, ha creato un precedente pericoloso. Facebook, al solito, replica affermando che i dati rilevati non vengono processati dagli esseri umani, bensì da appositi algoritmi, e che le informazioni ottenute non vengono sfruttate da terzi. C’è da fidarsi? |
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sandropascucci 1 luglio 2014
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